Camion precipita in una scarpata a Udine, morto il conducenteFranco Coppi è uno dei penalisti più famosi d’Italia,VOL ha difeso anche Andreotti e De Gennaro, oltre a molti imputati per i principali casi di cronaca nera. Refrattario al clamore mediatico, ha spostato la linea difensiva dall’attacco alla procura e alla contestazione dei fatti, a uno studio di diritto per individuare gli errori giuridici dell’accusa Il leader di Forza Italia, Silvio Berlusconi, è stato assolto in primo grado nel processo Ruby ter dall’accusa di corruzione in atti giudiziari. Il tribunale di Milano lo ha assolto “perchè il fatto non sussiste”: il Cavaliere era imputato per aver corrisposto del denaro alle ragazze che avevano partecipato alle feste in casa sua e, nell’ipotesi accusatoria, si era trattato di corruzione per indurle a non testimoniare nel processo a suo carico. L’assoluzione di Berlusconi è stata una vittoria soprattutto per il suo legale, l’avvocato Franco Coppi, che ha visto accogliere interamente la sua linea difensiva. Da quanto ha assunto la difesa del Cavaliere, accanto allo storico studio Longo di Padova, dove lavorava anche il defunto Niccolò Ghedini, Coppi è riuscito a farlo assolvere in tutti i procedimenti penali del filone “Ruby”. Lo stile di Coppi Quello di Coppi è stato un cambio di linea e di stile difensivo, che ha spostato il fuoco dalla contestazione dei fatti per come ricostruiti dalle procure alla contestazione prima di tutto della loro costruzione giuridica. Tradotto: basta con la linea aggressiva nei confronti dei magistrati e di muso duro contro quella che Berlusconi ha sempre ritenuto una persecuzione giudiziaria. Il modo migliore per vincere, secondo Coppi, è quello di lavorare in punta di diritto e non agitando ragioni politiche e attacchi mediatici. Non a caso una delle storiche citazioni a lui attribuite è che «L’impatto che i mass-media possono avere su un processo dipende esclusivamente dai protagonisti. Se il giudice, il pubblico ministero, l’avvocato hanno i nervi saldi e sanno fare il loro mestiere, sono perfettamente in grado di gestire anche l’eventuale rapporto con giornali e televisioni. Quello che conta in un processo è ciò che succede in aula». Di più: il suo fastidio per il clamore intorno ai processi è stato manifestato in più occasioni, anche con la rinuncia del mandato. È stato il caso di don Pierino Gelmini, il fondatore della comunità Incontro accusato di abusi sessuali: all’ennesima esternazione pubblica del suo assistito, Coppi ha conunicato con un telegramma la rinuncia alla difesa, spiegando che la sua linea di difesa non era compatibile con «l’ingestibilità» del cliente. Un mantra, questo, che applica anche a se stesso. Nonostante sia uno dei più noti penalisti italiani, in pochi fuori dai tribunali conoscono la sua faccia. Per nulla amante della ribalta mediatica, rifugge anche la vita mondana e non ha mai mischiato attività professionale e visibilità personale. Alle lusinghe della politica ha sempre preferito il suo studio in viale Bruno Buozzi, nel cuore dei Parioli a Roma. Viene descritto da chi lo conosce come persona sobria con un unico vezzo, quello delle cravatte. Di lui si racconta anche la vena superstiziosa, incanalata nell’uso esclusivo di una penna Ferrari rossa per scrivere durante le udienze. Con lui lavora anche la figlia, che è anche il suo contatto con la politica: suo genero è l'avvocato veneto Pierantonio Zanettin, capogruppo di Forza Italia in commissione Giustizia alla Camera. Chi è Coppi Nato a Tripoli nel 1938, si è laureato alla Sapienza di Roma ed è stato allievo e assistente di Giuliano Vassalli, autore della riforma del codice di procedura penale. Professore ordinario di diritto penale dal 1975 prima a Teramo, poi a Perugia e infine alla Sapienza, è emerito dal 2011. Nel corso della sua lunghissima carriera da avvocato è stato il difensore di moltissimi imputati famosi, al centro dei principali processi italiani. Il suo assistito più noto, almeno quanto Berlusconi, è stato Giulio Andreotti nel processo per mafia, che lanciò anche una sua giovane collaboratrice di studio, oggi presidente della commissione Giustizia al Senato, Giulia Bongiorno. Negli anni il suo nome è stato affiancato ad Antonio Fazio nello scandalo della banca Antonveneta, al generale Vito Miceli per il tentato golpe Borghese, a Gianni De Gennaro per i fatti del G8 di Genova e i pestaggi alla scuola Diaz, l’assistente Bruno Romano nell’omicidio Marta Russo e la ThyssenKrupp nel processo per il rogo delle acciaierie di Torino. Tra i principali casi di cronaca nera, sua è stata anche la difesa di parte civile nel processo per l’omicidio di Marco Vannini, dell’imputato Raniero Brusco nel processo per il delitto di via Poma e di Sabrina Misseri nel caso dell’omicidio di Avetrana. Recentemente è stato anche il difensore di Luca Traini per l'attentato di Macerata e di Pietro Genovese, il figlio del regista Antonio Genovese accusato di omicidio stradale per l’investimento di due ragazze in Corso Francia a Roma. Per sua stessa ammissione in una delle rare interviste, ha spiegato che «Gli espisodi di cronaca nera sono quelli che decisamente mi affascinano di più. In aula riesci a percepire certi movimenti dell’animo umano, come agisce in determinati frangenti, cosa lo motiva. Ho passato tutta la vita nei tribunali e posso dire tranquillamente che è una gabbia di matti». Il Caso Ruby ter Anche nel caso Ruby ter, la linea di Coppi è stata quella del profilo basso e dell’abbassamento del livello di scontro con la procura di Milano. Una linea forse poco incline con il carattere di Berlusconi, ma che si è rivelata pagante. La difesa dall’accusa di corruzione in atti giudiziari, infatti, è stata giocata più che sul merito, sulle ragioni tecniche. Proprio Coppi, nell’ultima udienza di discussione, ha lasciato la parte in fatto al collega Federico Cecconi e si è limitato a concludere con quella in diritto, spiegando le ragioni per le quali la procura aveva sbagliato a rubricare il reato a carico di Berlusconi con motivazioni solamente giuridiche. Berlusconi aveva sì pagato le ragazza, per un atto di liberalità secondo lui e corruttivo secondo la procura, ma lo aveva fatto in una fase in cui ancora non erano testimoni. Dunque la procura aveva sbagliato l’ipotesi di reato, perchè per essere accusato di corruzione in atti giudiziari Berlusconi avrebbe dovuto corrompere persone che già avevano assunto la qualità di testimoni, quindi di pubblici ufficiali. In una nota del tribunale di Milano, che depositerà le motivazioni della sentenza in 90 giorni, è evidente come la sua linea sia stata accolta. Si leggono infatti le motivazioni: la corruzione in atti giudiziari «sussiste solo quando il soggetto corrotto sia un pubblico ufficiale. Per giurisprudenza costante, la persona che testimonia assume un pubblico ufficio e le Sezioni Unite della Cassazione hanno chiarito che il giudice chiamato ad accertare la fattispecie correttiva deve verificare se il dichiarante che si assume essere stato corrotto sia stato o meno correttamente qualificato come testimone» e «Poiché le persone chiamate a rendere dichiarazioni nei processi Ruby 1 e Ruby 2 andavano correttamente qualificate come indagate di reato connesso e non testimoni, non solo non è configurabile il delitto di falsa testimonianza ma neppure il reato di corruzione in atti giudiziari». © Riproduzione riservataPer continuare a leggere questo articoloAbbonatiSei già abbonato?AccediGiulia Merlo Mi occupo di giustizia e di politica. Vengo dal quotidiano il Dubbio, ho lavorato alla Stampa.it e al Fatto Quotidiano. Prima ho fatto l’avvocato.
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