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Di Maio esclude rimpasto e maggioranza diversa: "Solo il voto"

Dadone risponde a Zampa sull'obbligo dei vacciniAbbiamo oggi ospite per la nuova puntata di AI Talks,analisi tecnica il format di interviste di AI news alla scoperta dell’intelligenza artificiale, Stefano Moriggi, professore associato di cittadinanza digitale e di società e contesti educativi digitali presso l’Università degli studi di Modena e Reggio Emilia. Stefano Moriggi è anche membro della McLuhan Foundation di Toronto. Partiamo da una definizione che è anche il filo rosso che guida i nostri talks. Che cos’è l’intelligenza artificiale?Bella domanda che richiederebbe molto tempo per trovare una risposta esaustiva. Mi piacerebbe anzitutto ricordare che intelligenza artificiale è due parole, per l’appunto, intelligenza, e artificiale. Due parole che sono state accostate per esprimere una dichiarazione di intenti che ha dato forma a un progetto di ricerca. Era il 1956 e presso il Dartmouth College negli Stati Uniti, un gruppo di studiosi dalle formazioni diverse, dai geni eccentrici e per molti versi scapestrati come Marvin Minsky, Rochester, Shannon, il famoso teorico dell’informazione, diedero vita a un progetto di ricerca che ebbe come nome “Dartmouth Summer Research Project On Artificial Intelligence”. Qual era l’obiettivo di questo gruppo di ricercatori? Questo è l’aspetto più interessante che ci porta dentro quella stessa dichiarazione di intenti, lo cito precisamente perché in questi casi bisogna far attenzione alle parole, simulare ogni aspetto dell’apprendimento e di qualsiasi altro aspetto dell’intelligenza umana. Un progetto di simulazione di come la specie umana apprende e della sua intelligenza. Si erano dati anche un termine per portare a compimento questo loro progetto, un’estate. Ovviamente non ci riuscirono. Ancora adesso non siamo riusciti a portare a termine quell’obiettivo, ma sicuramente sono stati svolti una serie di sviluppi che hanno portato a quell’Intelligenza artificiale adesso accessibile. Questa è sicuramente una parte della storia, quella che, l’amico e collega Luciano Floridi definisce come la storia di un divorzio, il divorzio tra la possibilità di perseguire un fine, anche complesso, e la necessità di essere intelligenti per perseguire quel fine. Intelligenti per come noi ci intendiamo, ci definiamo intelligenti, al punto che anni dopo, quando si chiese a McCarthy, che cosa davvero intendesse per intelligenza artificiale, all’epoca disse, “intendevamo un dispositivo in grado di compiere operazioni per fare le quali un essere umano avrebbe avuto bisogno di una buona dose di intelligenza”. Definizione che se la guardiamo da vicino è un po’ esotica, per non dire bizzarra, anche dal punto di vista logico, ma che in qualche modo cattura la seduttività di quel progetto che aveva portato a quel nome e che giustifica peraltro la storia del divorzio a cui Floridi faceva riferimento.Ecco, oltre a questa metafora del divorzio, ce n’è un’altra che mi ha colpito molto e che è legata al libro che hai appena pubblicato, che richiama un concetto che non ho mai sentito prima riferito all’intelligenza artificiale, quello di fantasmi. Di che cosa si tratta? Mettiamola in questi termini. Tutti i discorsi sulle tecnologie vedono aleggiare attorno a loro una serie di fantasmi molto diversi anche tra loro. E in questo libro io e il mio amico e collega Mario Pireddu abbiamo cercato di fare una specie di tassonomia spettrale, cioè di analizzare tutti i fantasmi, o perlomeno la maggior parte dei fantasmi, che gravitano attorno ai discorsi sulle tecnologie, ma in particolare a quella tecnologia che in qualche modo entusiasma e preoccupa molti di questi tempi, l’intelligenza artificiale. Quali sono le tipologie dei fantasmi? Ce ne sono alcuni, quelli che raccontano un sacco di storie nel senso proprio di fake news. Li frequentiamo, più o meno consapevolmente, ci suggeriscono all’orecchio una serie di narrazioni, alcune entusiastiche, altre apocalittiche attorno all’intelligenza artificiale, ma sono così seduttive che noi ci crediamo, per quanto non sempre, anzi quasi mai, abbiano un qualche fondamento di natura scientifica o anche epistemologica. E questi sono i fantasmi che dovremmo imparare a riconoscere, con i quali dovremmo imparare a interagire con un piglio dialettico, per smontare le loro narrazioni, ma non solo, perché smontando le loro narrazioni potremmo scoprire cosa o chi sta dietro quelle narrazioni. E questo è stato uno degli obiettivi del libro. Poi ci sono altri fantasmi, quelli per esempio, di cui parla un grande filosofo come Jacques Derrida in un libro che scrisse un po’ di anni fa, che non a caso si chiamava “Gli spettri di Marx”. Quel tipo di fantasmi rappresentano per noi, per altri versi, un compito. Ci ricordano che tutte le macchine e anche l’intelligenza artificiale hanno delle matrici culturali spesso molto lontane dal periodo in cui queste tecnologie esplodono anche a livello sociale. Quindi il nostro compito, quasi con uno sguardo archeologico, è quello di recuperare il fantasma che racconta questa storia, un po’ come accade ad Amleto quando parla con il fantasma del padre che gli dice come sono andate le cose, allora lui capisce tutta la storia ed è in grado di agire così come poi si è comportato nella tragedia shakespeariana. In qualche senso noi dovremmo fare la stessa cosa, recuperare questi altri fantasmi che ci riportano dentro, non semplicemente la storia, ma la genealogia delle idee, delle condizioni economiche, sociali e politiche che hanno reso possibile e necessaria l’emergenza di certe macchine, e noi, nella fattispecie, lo facciamo nel libro per quanto riguarda l’intelligenza artificiale, e solo in questo modo possiamo riappropriarci di un discorso culturale che ci consente non solo di trattare o gestire le macchine relativamente alle loro potenzialità tecniche, ma di contestualizzarle culturalmente e forse una buona volta di iniziare a pensare con le macchine. Il che non significa delegare il pensiero alle macchine, ma significa trovare una modalità di interazione sostenibile con cui ripensare il nostro posto e il nostro ruolo nel mondo.“L’AI è uno dei presupposti per iniziare di nuovo a pensare di essere umani”, intervista a Matteo Ciastellardi | AI Talks #10E quali sono i fantasmi più pericolosi, quelli da cui ci dobbiamo guardare con maggiore attenzione? Questa domanda trova risposta nel libro, che è una specie di giallo da questo punto di vista, perché io e Mario Pireddu siamo una specie di cacciatori di fantasmi e ci mettiamo sulle tracce anche dei fantasmi più insidiosi. La cosa per certi versi sorprendente e per altri angosciante è che i fantasmi più inquietanti, parlo volutamente al plurale anche per depistare, sono quelli che, se non altro per ragioni prospettiche, facciamo più fatica a vedere. Nel libro tentiamo di accompagnare il lettore in questa spettro-logia viaggiando nello spazio e nel tempo, spostandoci da quelli che vengono appunto da molto lontano per portarci i loro discorsi, precipitando in quelli che hanno dato anima in qualche senso a videogiochi come Pac-Man, che è una palestra utilissima anche per capire come agiranno, come hanno imparato ad agire con una qualche autonomia gli algoritmi e le reti generative. All’interno di tutto, questa spettro-logia vasta, segnaliamo al lettore quali sono quelli più insidiosi, perché sono più difficili da vedere rispetto agli altri. Ribadisco più insidiosi, anche perché sono quelli di cui davvero dobbiamo avere più paura. Oggi il dibattito in particolare sulle AI Generativa è diventato un confronto che dall’ambiente tecnico e accademico è dilagato in ogni ambito, divenendo di fatto di dominio pubblico. Quali sono, dal tuo punto di vista, le ragioni di tutta questa attenzione? C’è una ragione, secondo me molto pragmatica: questo tipo di tecnologia, come accadde qualche decennio fa per il web, è stata resa in qualche modo accessibile, sia dal punto di vista strumentale, che dal punto di vista economico. Gratuitamente o pagando un modesto abbonamento, chiunque può iniziare a interagire con questo tipo di strumenti e con la loro sorprendente performatività. Questo inevitabilmente ha suscitato uno stupore di interagire con chatbot che erano in grado di conversare con noi. Dopodiché, come sempre accade con le tecnologie che iniziano a diffondersi su larga scala, dopo un primo entusiasmo, cominciano ad arrivare le prime preoccupazioni, per non dire le prime inquietudini. Nella fattispecie, qui l’inquietudine può anche, se non debitamente gestita, andare un po’ fuori controllo per una ragione particolare che riguarda specificamente l’intelligenza artificiale. Potremmo rileggere tutta la storia delle tecnologie come una progressiva esternalizzazione delle facoltà della nostra specie, fisiche piuttosto che intellettuali, dagli strumenti più rudimentali che ci aiutano a fare dei compiti, anche concreti, fisici, alla calcolatrice che ci aiuta a fare calcoli con una velocità e una capacità di calcolo che noi evidentemente non abbiamo. Se utilizzi questa categoria dell’esternalizzazione delle facoltà per rileggere l’evoluzione delle tecnologie, potresti avere, se non la gestisce a dovere, l’abbaglio, l’allucinazione che tu stia delegando il pensiero a una macchina che in qualche modo pensa più rapidamente e addirittura meglio di te. E questo tipo di sguardo competitivo e al contempo positivo sulle tecnologie è uno dei generatori automatici di fantasmi e in particolare di narrazioni utopiche e distopiche di cui il web, ma anche la saggistica internazionale, è piena. Da questo punto di vista non è difficile rileggere con una qualche attenzione le utopie di chi sostiene la singolarità, da Kurzweil in avanti, fino ad arrivare ad alcune visioni al tempo stesso umanistico e distopiche come quelle del lungotermismo che si danno addirittura a diversi livelli di tutela del futuro a svantaggio di un presente. Teorie che scommettono sul futuro più di quanto non tengono a tutelare il presente del mondo, dell’universo e della specie umana stessa. Quindi attenzione a maneggiare con cura il termine, le parole da cui siamo partiti, intelligenza artificiale, attenzione a riposizionarlo dentro le debite narrazioni. Quei fantasmi, quelli di seconda generazione a cui prima facevo riferimento, ci aiutano a inquadrare, riportandoci da lontano, dal loro spazio-tempo, le matrici culturali con cui la possiamo inquadrare nel presente e proiettare nel futuro, perché indubbiamente uno sguardo può generare ulteriori spettri che, oltre a spaventarci, non ci aiutano a vedere quali potrebbero essere le effettive opportunità e gli eventuali rischi da affrontare con un pragmatismo un po’ più sano.  Nel libro parlate anche dei punti di vista che si possono rinvenire nel dibattito che c’è oggi tra i tecnoscettici e gli entusiasti, che appartiene allo sviluppo della discussione sull’intelligenza artificiale di oggi su tanti livelli, da quello più strettamente normativo, ad altri piani. Quali sono le insidie dell’una e dell’altra posizione? Le stesse, guardate da una parte e dall’altra. I tecno scettici e i tecno entusiasti sono la versione aggiornata degli apocalittici e integrati di cui parlava Eco. Così come non si può immaginare un elenco di opportunità dell’intelligenza artificiale totalmente distinto da un elenco di rischi, perché spesso sono l’uno la faccia dell’altro, allo stesso modo l’entusiasmo degli uni è l’altra faccia della paura e dell’angoscia apocalittica che incarnano invece altri. Ma a mio parere ancora più insidioso come atteggiamento, soprattutto quando si parla di tecnologie, è quello che viene spacciato come buon senso, cioè quello che dice, “mettiamo l’uomo al centro, le tecnologie devono essere al nostro servizio, l’importante è avere l’uomo al centro, riformuliamo un nuovo umanesimo”. Ogni volta che viene nominato l’umanesimo in queste condizioni, Leon Battista Alberti, Marsilio Ficino e tutti gli altri campioni di quell’epoca si ribaltano nella tomba, perché non c’è niente di più sbagliato, caricaturale nel proporre questa visione consolatoria di un’epoca che non è stata consolatoria e che ha percepito la fine di un ordine e tutto il brivido esistenziale culturale che attraversa un periodo storico, quando un nuovo ordine è da pensare. L’umanesimo è l’epoca in cui l’uomo si fa compito di se stesso, non è qualcosa di definito, di metastorico, non lo è mai stato. È un compito continuo. Questo gli umanisti lo sapevano, lo sapeva Machiavelli, lo sapeva Nietzsche, lo sapeva Spinoza, lo sapevano tutti i grandi pensatori della modernità, anche quelli che sono venuti dopo l’umanesimo. E ci illudiamo di poter proporre come attendibile una visione caricaturale di umanesimo che peraltro di solito finisce in talk show dove da una parte si presenta il tecnico che dice quello che si potrebbe o si può fare con la potenzialità di queste macchine, e a fianco gli si posiziona un qualche esponente di una qualche etica, può essere religiosa oppure no, che invece spiega quello che si deve o si dovrebbe fare. C’è l’idea che c’è la tecnica e c’è un’etica che esprime invece morale, valori metastorici che tutelano l’umano come se fosse una reliquia fuori dalla storia. Questa è una caricatura di un umanesimo che non è mai esistito e quindi, qualora servisse, non fosse altro a questo, il grande dibattito che è in corso e che spero continui anche in termini più approfonditi sull’intelligenza artificiale, potrebbe e dovrebbe servire anche a capire qualcosa di chi siamo noi, prendendo spunto e traendo insegnamento da quei grandi umanisti di cui i più propongono solo una triste e trasfigurata caricatura. Parlando proprio di quelle che sono le potenzialità che ci offre oggi il dibattito sull’intelligenza artificiale, abbiamo parlato dei rischi, ma mi piacerebbe invece soffermarmi sulle opportunità e le possibilità che ci offrono le nuove tecnologie. Quali saranno gli spazi di crescita delle reti generative e dove potranno dare il maggior contributo all’uomo? I contributi potranno essere tanti e su diversi livelli. Uno paradossalmente potrebbe riguardare proprio lo studio del passato. Le società digitalizzate come la nostra ci mettono a disposizione una quantità di dati mai vista prima, e gestirla è tutt’altro che facile. L’abbondanza molto spesso è un problema, e l’intelligenza artificiale, gli algoritmi, le reti generative dovranno essere degli strumenti che al nostro fianco si riveleranno particolarmente utili per gestire questa complessità e anche per tornare a studiare il passato. Dovremmo cominciare a fare i conti col fatto che una società come la nostra, senza algoritmi, collassa. Gli algoritmi sono qui, sono qui per restare e per fortuna. Siamo noi che dobbiamo imparare a contestualizzarli dal punto di vista culturale. Mi permetto però di fare un esempio sullo studio del passato. A scuola si studia l’impressionismo, movimento artistico di cui tutti più o meno sappiamo qualcosa, anche chi non è uno storico dell’arte di professione. Uno studioso americano ha esaminato la gran parte dei libri che si occupano di impressionismo, e ha notato che delle 13.000 opere tra dipinti e pastelli, che in qualche modo rientrano sotto la categoria “impressionismo”, e che sono stati prodotti nelle famose otto mostre che hanno scandito questo movimento, realizzate a Parigi tra il 1872 e il 1886, nella maggior parte vengono riprodotte le stesse 140 opere, ovvero più o meno l’1% del totale. È stato fatto un esperimento, sono state prese 5.000 opere, il 38% del totale, e poi sono state analizzate attraverso algoritmi di visualizzazione per rappresentare visualmente un numero di opere un po’ superiore a quelle ricorrenti nei saggi. Quello che si è visto è che le caratteristiche tipiche che hanno definito il canone dell’impressionismo, così come l’abbiamo imparato tutti a scuola, colori un po’ vivaci, personaggi moderni per quello che era la modernità all’epoca, quello che noi conosciamo dell’Impressionismo, torna nel 25%, dei quadri esaminati. Questo è un esempio concreto di come potremmo guardare più da vicino i fenomeni e di osservarli nel modo in cui si sono sviluppati, nello spazio e nel tempo, da dove è venuto l’impressionismo, quali sviluppi ha avuto, in quali altre correnti artistiche in qualche modo è andato defluendo e sfumando. Non sto dicendo che sia questa un’immagine di impressionismo più veritiera del canone che si è stabilito su un modello di eccellenza definito nell’Ottocento. Sto dicendo che sono due sguardi diversi su un fenomeno che ci consentono di guardarlo in maniera più ricca, più completa, con la possibilità di approfondire ulteriormente. E questo per il passato. Per il futuro indico due linee di ricerca. La prima, credo che l’estetica in senso lato, il mondo dei linguaggi dell’arte, potrà avere uno sviluppo interessante al punto da mettere in discussione lo stesso statuto ontologico, lo stesso concetto di opera d’arte, oltre che di autorialità. E su questa strada ci sono già esempi piuttosto interessanti, che dovranno invitarci a riflettere su cosa sarà opera d’arte. A suo modo ci costrinse a fare questo esercizio Andy Warhol, quando espose le Brillo Box in una galleria d’arte. Esercizi analoghi e ancora più radicali dovremmo farli a breve, spinti dalla potenzialità delle reti generative. Ma un altro aspetto più vicino alle mie competenze, potrà riguardare anche a livello scolastico la possibilità di reintrodurre l’arte della conversazione e le teorie dell’argomentazione come esperienza formativa ed educativa. Quando rispondevo domanda su cos’è l’intelligenza artificiale, per ragioni di tempo ho taciuto un altro momento fondativo, cioè quel famoso articolo, nel 1950, intitolato “Computing Machinery ed Intelligence”, in cui il grande Alan Turing fin dall’inizio si poneva con la semplicità dei grandi la famosa domanda, “ma le macchine potranno pensare?”. Subito dopo disse che questa domanda non ha molto senso, per tante ragioni, ma per una in particolare: noi non abbiamo, diceva Turing, una definizione univoca di pensiero. Come possiamo rispondere alla domanda se le macchine potranno pensare, se non abbiamo una definizione di coscienza, se non sappiamo neanche perché e come ci possiamo dire in qualche modo coscienti? Allora lui cambiò la domanda, la riformulò usando parole che definì un po’ più univoche rispetto a quella di pensiero. E la domanda che formulò suona più o meno così: “esisteranno computer digitali in grado di conversare con degli umani al punto da ingannarli, da non farsi riconoscere, che sono macchine?” La cosa importante di questo ripensamento della domanda è l’aspetto “computer digitali in grado di conversare”. Le intelligenze artificiali che noi stiamo vedendo sono in qualche modo eredi di quell’intuizione, perché sono in grado di simulare conversazioni.Se seguiamo la storia di ChatGPT, seguiamo la storia di una tecnologia che è sempre in maniera più performativa in grado di conversare. Allora dovremmo specularmente imparare a conversare con la macchina nella direzione di una maieutica reciproca, di un settaggio reciproco che potrebbe rappresentare, dalla scuola all’Università, un progetto tale da recuperare alcune competenze dialettiche che vengono anche da un modo antico di intendere la ragione, soprattutto in contesti dove dobbiamo imparare a distinguere ciò che è attendibile, e ciò che non lo è e gli strumenti dell’argomentazione saranno sempre più di grande attualità.  L’intelligenza artificiale sta richiamando una forte attenzione da parte della filosofia, forse come non è mai successo di recente per altre innovazioni tecnologiche. Perché secondo te? In parte abbiamo sfiorato questo tema quando prima raccontavamo l’opportunità di poter descrivere la storia delle tecnologie come una progressiva esternalizzazione delle nostre facoltà e l’intelligenza artificiale, almeno da un certo punto di vista un po’ distorto, sembra esternalizzare le nostre facoltà intellettuali e cognitive. Dopodiché c’è un altro aspetto interessante che proverei a sintetizzare ricordando una ricerca condotta all’inizio degli anni ‘70 da uno studioso giapponese, Mori, il quale notò, sottoponendo una serie di soggetti a questo esperimento, che quanto più degli osservatori umani venivano esposti alla vista di robot con sembianze sempre più simili all’uomo, le risposte erano emotivamente positive, erano quasi empatiche nei confronti di questi strumenti. Ma attenzione, fino a un certo punto. Quando la somiglianza, non solo negli aspetti, ma anche delle potenzialità e nelle facoltà, nelle cose che poteva fare, superava una certa soglia, quella che era una reazione empatica, positiva, si tramutava in angoscia. Secondo me il dibattito più o meno ordinato o disordinato attorno a questi temi è anche alimentato dal fatto che questo tipo di tecnologie in qualche modo ci inquietano nel profondo, non tanto perché sono altro da noi, quanto perché ci assomigliano più di quanto non siamo disposti ad accettare. E credo che questo sia un altro punto di vista dal quale guardare con attenzione non tanto le macchine, quanto noi attraverso quelle macchine.  

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