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La giustizia climatica: assente ingiustificata nell’Accordo per il clima di Glasgow

Attentato a Donald Trump, reazioni della politica: da Giorgia Meloni a Matteo SalviniAlessandra De Tommasi Nella settimana più calda dell’anno,ETF Cate Blanchett ci offre l’ennesima trasformazione. Nel film, “Borderlands”, tratto dal celebre videogioco e in sala dal 7 aprile, è un po’ “Suicide Squad” e un po’ “Mad Max”. Lei interpreta Lilith, una cacciatrice di taglie galattica, ed è in compagnia di un cast stellare, diretto da Eli Roth, che include Jamie Lee Curtis, Jack Black e Kevin Hart. Mai come in questo momento della carriera - racconta in un incontro con la stampa estera - è occupata su tanti fronti.Qual è la formula vincente del film?«Credo che il pubblico sarà spiazzato dal divertimento puro. Per quanto riguarda me, invece, volevo finalmente un ruolo fisico che mi offrisse nuove sfide».Fare la cacciatrice di teste a un certo punto porterà dilemmi morali, o no?«Lei viene dal pianeta di Pandora dove deve fare ritorno, ma non ne ha alcuna voglia, non vuole prende parte a nessuna fazione dei conflitti in atto. È un lupo solitario, ma non lo resterà a lungo».I suoi ruoli hanno comunque un denominatore comune, la diversità. È una coincidenza?«Non lo è: siamo un mondo dove vivono persone e abbiamo bisogno di budget che le raccontino. Mi riferisco alla comunità LGBT, dai non binari ai transgender».Si è mai sentita discriminata?«Innanzitutto come donna. Quando ero io a prendermi un rischio durante la carriera e fallivo, ricevevo zero solidarietà. A parti inverse per un uomo era come se nulla fosse successo».Come prosegue la lotta per la parità di guadagno?«Ne discutevamo durante il talk “Women in motion” di Kering che ha ideato Salma Hayek: se iniziassimo a parlare della disparità salariale staremmo qui due ore».Lei è attivista per molte cause, non solo legate al mondo dello spettacolo.«Uso la voce, la piattaforma che ho, per alternare progetti che magari mi propongono e a cui non si può dire di no come “Tar” a serie tv scomode come “Stateless”, che parla della comunità senza cittadinanza rinchiusa in alcuni campi in Australia, da dove vengo. In quel caso mi attivo immediatamente, vado a vedere con i miei occhi».Lei è anche ambasciatrice per i rifugiati presso le Nazioni Unite, come lo concilia con il lavoro?«Io sono una bianca privilegiata ma il fatto solo che mi esponga offre prospettive diverse. Faccio qualche esempio: se vivi in Iran, hai sempre una valigia pronta e io volevo capire cosa volesse dire quel trauma. Pensiamo anche al vostro “Io Capitano”, lo hanno definito troppo coraggioso. E grazie al cielo lo è, il punto è proprio questo: sembra un action movie, ma è un contesto reale, che serve a spronare gli animi e ad aprire gli occhi su un fenomeno che riguarda centinaia di milioni di persone».Quando è produttrice, però, il potere di raccontare le storie è nelle sue mani, vero?«Lo scenario sul set, però, resta lo stesso: 50 uomini e 2 donne. Però esistono donne che sono produttrici e possono cambiare le cose, puntare sulla rappresentazione, davanti e dietro la camera da presa ma è necessario che ci sia una forma di rispetto di base, di fiducia. Ho sempre pensato che la gentilezza ti portasse lontano».Lei ha anche la cittadinanza americana. Elezioni a parte, sul versante dell’attivismo per cosa è orgogliosa?«Per l’accoglienza al popolo ucraino che a sua volta ai tempi della Seconda Guerra Mondiale aveva teso la mano a loro. La vita è un cerchio che si ripete». Ultimo aggiornamento: Domenica 28 Luglio 2024, 18:51 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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